... regionalismo all’italiana: ... quale unità oggi?
Da "il Seminario" n. 1/2020
Il tema dell’unità è ri-esploso durante l’emergenza virus ed ha, casualmente, coinciso con il 159° anniversario dell’Unità d’Italia. Infatti il dibattito pubblico è stato dominato per mesi dalle polemiche tra il governo e i governatori delle Regioni, e ...
... tra questi ultimi soprattutto tra i governatori di Lombardia, Campania, Calabria e Sardegna. La gestione dell’emergenza sanitaria è stato il principale motivo di contrasto, perché, a fasi alterne e con numerosi cambi di linea politica, i governatori hanno accusato il governo ora di essere troppo rigido nelle norme anti-contagio, ora di essere troppo permissivo. Ad esempio il Governatore della Lombardia, Attilio Fontana, è passato, più volte, dal chiedere una più forte applicazione del lock-down, a protestare per la mancata apertura dei confini con le altre Regioni.
Altri Governatori, come quello della Campania, Vincenzo de Luca, hanno approfittato dell’emergenza per rispolverare un revanscismo anti-settentrionale, compattando intorno alla propria figura, tutti i critici della gestione lombarda della pandemia. Si sono quindi viste, soprattutto sui social, i soliti, e ormai di moda, strali contro la “conquista piemontese” e contro “la mala-unità”, uniti ai meno storicamente accettabili elogi verso la monarchia borbonica. Questa situazione è il risultato di decenni di de-centralizzazione, che hanno consentito oggi alle Regioni di gestire deleghe importanti, fino a qualche anno fa competenza del Governo centrale, come la sanità e i trasporti.
La sanità, in particolare, è ormai saldamente competenza delle Regioni e, quindi, soprattutto in periodi di emergenza come quello che stiamo vivendo, risaltano le differenze tra le Regioni. Le Regioni del Sud, ad esempio, pagano una storica debolezza sul piano delle infrastrutture ospedaliere, che si è aggravata negli ultimi anni, proprio per la gestione locale del settore. La Campania, addirittura, ha vissuto una gestione commissariale della sanità fino allo scorso anno, perché, per le regole del fiscal-compact, dato il suo alto debito pubblico, ha dovuto operare pesanti tagli alle strutture e al personale, compromettendo seriamente il diritto alla salute. Da una parte questa situazione è frutto di scelte politiche locali, perché i tagli avrebbero potuto essere fatti diversamente o in altri settori, ma dall’altra è facile capire come una regione povera come la nostra vada in difficoltà se deve gestire da sé, con le sue proprie entrate, un settore così costoso come la sanità, peraltro già in sofferenza in passato. La Lombardia, invece, può permettersi la spesa sanitaria più alta d’Italia, che, però, non va tutta a vantaggio dei cittadini. Infatti, soprattutto a partire dalla gestione Formigoni, la sanità lombarda ha privilegiato sempre di più i privati, finanziandoli con ingenti risorse, che venivano naturalmente tolte al settore pubblico. Si è generato un sistema misto pubblico-privato, che ha costretto anche il pubblico ad operare secondo logiche di mercato, competendo sul terreno del mercato con le strutture private.
Questa organizzazione durante l’emergenza ha mostrato tutti i suoi limiti, facendo scoprire l’importanza di un servizio pubblico forte ed efficiente. L’Unità, dunque, al di là degli slogan dell’emergenza, è stata già pesantemente minata dalle riforme decentralizzatrici degli ultimi 30 anni. Ricordiamo che durante l’Assemblea Costituente molti deputati protestarono contro l’istituzione delle Regioni e importanti uomini di cultura si dichiararono contrari, come Benedetto Croce. Essi intravedevano nelle Regioni la rottura dell’Unità nazionale, così faticosamente conquistata durante il Risorgimento e riconquistata dopo la II guerra mondiale. Le loro paure erano, forse, eccessive per quanto riguarda le Regioni così come erano state instituite dai Costituenti, ma certamente, a più di 70 anni di distanza, non ci appaiono così immotivate. La prima spinta decentralizzatrice, quella che partiva, appunto, dalla Costituente, aveva per obiettivo di impedire che uno stato centralizzatore, come era stato quello fascista, potesse ripresentarsi e schiacciare le identità locali. Si era inoltre convinti che se le Regioni e i Comuni avessero avuto più autonomia, avrebbero potuto individuare meglio i problemi del proprio territorio per una questione di maggiore prossimità politica. Infine le Regioni del Sud, storicamente svantaggiate, avrebbero potuto, auto-organizzandosi, recuperare il gap con le Regioni del Centro-Nord.
Per vari motivi queste speranze sono state infrante e non si è realizzato nulla di quanto sperato. Però la “nostra” decentralizzazione ha poco in comune, se non a livello di slogan, con quella dei Costituenti. La seconda “ondata” di decentralizzazione è collocabile nella seconda metà degli anni ’90 ed è stata sospinta da motivazioni tutt’altro che nobili. L’ascesa della Lega Nord, da una parte, e il sogno europeo dall’altro, hanno convinto i governi, di vario colore politico, ad intraprendere la strada della de-centralizzazione. La Lega Nord, portavoce del Nord produttivo ed industrializzato, ha portato avanti una narrazione anti-unitaria, sostenendo che il Nord avesse bisogno di maggiore autonomia per sviluppare tutte le sue potenzialità, senza essere ostacolato dal Governo di Roma e dal Sud sprecone e pigro. Il federalismo fiscale, a lungo la battaglia principale del partito di Bossi, è stato ormai realizzato, anche se non proprio nei modi richiesti dalla Lega delle origini. Infatti essa richiedeva che si formasse una macro-Regione del Nord, la Padania, e che avesse autonomia finanziaria, mentre oggi sono le singole Regioni a godere di questo privilegio.
Inoltre, non si tratta di un’autonomia completa, perché una parte delle tasse, anche cospicua, va ancora al governo centrale. La seconda “spinta” decentralizzatrice, l’Unione Europea, ha lavorato in due direzioni differenti. Da una parte, consentendo la distribuzione dei fondi europei su base regionale, ha aumentato i poteri delle Regioni, facendo emergere anche la diversità delle singole amministrazioni in quanto a capacità di attrazione di detti fondi e di spesa di questi ultimi.
Ad esempio la Campania ha per anni addirittura restituito una grande fetta degli aiuti europei, perché non è stata in grado di presentare in tempo utile i progetti di spesa. Dall’altra parte la convinzione, soprattutto prima della crisi del 2008-2009, che fosse ormai imminente la costruzione degli Stati Uniti d’Europa, ha portato i governi a concedere sempre maggiore autonomia alle Regioni, senza prevedere un vero e proprio meccanismo che potesse riequilibrare le differenze economiche tra le Regioni. Il divario Nord-Sud, se guardiamo ai rapporti Svimez, è aumentato sempre di più, mentre si stava riducendo, anche se di poco, ad inizio anni ’90.
Da questi numerosi insuccessi potremmo concludere che recuperare una più salda unità nazionale possa essere la soluzione, ma non è così semplice. Sicuramente sarebbe auspicabile un ritorno al governo centrale di settori di importanza strategica attualmente in mano alle Regioni e cioè: sanità, trasporti e istruzione. Soltanto con ingenti trasferimenti dallo stato centrale è possibile rilanciare le Regioni più in difficoltà. Però è anche vero che c’è bisogno di responsabilizzare la classe politica del Meridione, che troppo spesso va soltanto a rimorchio di quella del Centro-Nord, senza elaborare nessuna proposta “autonoma”. Non significa auspicare la formazione di partiti del Sud, ma solo di conquistare uno spazio di agibilità politica per i problemi del Mezzogiorno. Ad esempio, si parla da anni della Tav Torino-Lione, ma non si parla mai di potenziare le ferrovie del Sud, soprattutto da Salerno in giù. Non si parla mai di infrastrutture per le aree interne dell’Appennino, mentre si fa un gran ciarlare di turismo, artigianato e altre tematiche “belle”, ma secondarie. Senza infrastrutture, in particolare, senza ferrovie, strade e reti internet, il Sud non entrerà nel 21° secolo e l’Italia intera non sarà unita per davvero.
Michele Ambrogio Lanza