Considerazioni a margine dell'inaugurazione della panchina rossa a Sant'Andrea di Conza
A gentile richiesta della locale sezione della Fidapa BPW pubblichiamo anche qui l'articolo apparso su Facebook nella pagina dell'autrice.
Èlie Wiesel diceva: “Ho giurato di non stare mai in silenzio, in qualunque luogo e in qualunque situazione in cui degli ...
... esseri umani siano costretti a subire sofferenze e umiliazioni. Dobbiamo sempre schierarci. La neutralità favorisce l’oppressore, mai la vittima. Il silenzio aiuta il carnefice, mai il torturato.” Oggi, in questo importante consesso, vogliamo fare nostre queste parole pur ricordando che la violenza è sempre esistita ed era NORMALE AMMINISTRAZIONE ossia qualcosa all’ordine del giorno nella società. Tuttavia è oggi e non in passato che essa viene PROBLEMATIZZATA.
Il fenomeno della violenza sulle donne ha radici antichissime, da ritrovare negli atteggiamenti culturali che hanno determinato il modo di intendere il rapporto uomo-donna, da sempre considerata inferiore, geneticamente destinata all’obbedienza silenziosa, al rispetto assoluto del ruolo che si riflette nel principio dualistico dove la donna è passività e l’uomo è attività. Identificata come semplicistico strumento di procreazione, considerata priva di desiderio, oggetto o strumento del piacere maschile. Sembra strano dirlo ma, in epoca #PRIMITIVA, la donna ebbe un ruolo di primo piano all’interno dell’organizzazione sociale, perché considerata l’unica capace di donare vita. Nella Preistoria si ha prova della presenza di società che divinizzavano la #DeaMadre, fondate sull’eguaglianza dei sessi, sulla sostanziale assenza di gerarchia e autorità, di cui si conservano tracce sia nelle comunità umane del Paleolitico superiore quanto in quelle agricole del Neolitico. La Grande Madre, raffigurata quasi sempre gravida, nei tratti iconografici sessuali, sottolineava quel potere che solo a lei appartiene: creare e donare la vita. Signora dello spazio, nella sua totalità dal cielo alla terra, è Signora del Tempo, presiede infatti, al ciclo della nascita: vita, morte, rinascita; nonché Tessitrice della vita vegetale e umana (in medicina chiamiamo “tessuti” una parte fondamentale del corpo umano). Nel Neolitico, con la scoperta dell’apporto maschile nella creazione della vita si assiste a una rivoluzione epocale. È allora che compare il Dio della vegetazione: “il Paredro” (che siede accanto) della grande dea, che nasce e muore annualmente. La Grande Madre quindi si trasforma e si accompagna al suo “Paredro” in maniera tale da assumere valenze simboliche nuove, adattandosi alle esigenze dei gruppi umani divenuti stanziali. Il passaggio dalle società ginecocratiche a quelle fallocratiche si svolse in un lungo arco di tempo e non fu privo di momenti drammatici e di autentici scontri armati. Prestiamo, solo per un attimo, attenzione ai miti delle #Amazzoni: donne guerriere, guidate da una regina ed erano organizzate in una società matriarcale dalla quale gli uomini erano esclusi oppure costretti a vivere in schiavitù. Le attività principali erano riservate alle donne che governavano lo stato, maneggiavano le armi, combattevano a piedi o a cavallo con lance, archi, spade per difendere il loro territorio (si narrava che ogni anno le donne, in primavera, andassero nei paesi vicini per farsi ingravidare). Attorno al 3000 a.C. cominciò a imporsi una figura divina maschile, che lentamente soppiantò la Grande Dea a favore di un Dio maschile creando le basi per la subordinazione della donna all’uomo. L’ebraismo e la casta sacerdotale ebraica contribuirono in maniera determinante nell’affermazione delle società patriarcali. Il dio ebraico non è la Grande Madre di tutti, è un dio che parla all’uomo e solo con lui stringe un patto dandogli in dono la fertilità e il possesso della terra, quella terra che la Grande Madre aveva dato a tutti: “Voglio dare a te e alla tua progenie questa terra, dal fiume d’Egitto fino al grande fiume Eufrate”. La donna è esclusa dal patto tra l’uomo e Dio e dal quel momento in poi sarà ora demonizzata ora vissuta come un “essere inferiore”.
Un’ipotesi al vaglio, sull’origine del patriarcato, potrebbe essere la seguente: «Il ruolo femminile era inizialmente legato alla nutrizione, alla crescita dei figli e alla coltivazione dell’orto, ovvero era un “produttore” di vita. Con l’andare del tempo, quando gli uomini iniziarono ad allevare gli animali per ricavarne cibo, e con l’emergere della figura del contadino-padrone, l’associazione donna/terra assunse un valore ancora più denso di significato: l’uomo diventò proprietario della terra, capo-famiglia e “proprietario” della donna. Successivamente, mediante una deduzione religiosa, la donna come datrice di vita fu associata alla donna come vittima sacrificale. Il maschio acquisì il ruolo di sacerdote o sacro carnefice/eroe e quindi di dominatore». La donna è quindi ridotta ad una sorta di fattrice. Una descrizione accurata di come fosse organizzata una società patriarcale e di quali violenze venissero perpetrate ai danni delle donne ci è data dal Vecchio Testamento: «Quando un uomo venderà la figlia come schiava, essa non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se essa non piace al padrone, che così non se la prende come concubina, la farà riscattare. Comunque egli non può venderla a gente straniera, agendo con frode verso di lei. Se egli la vuol dare come concubina al proprio figlio, si comporterà nei suoi riguardi secondo il diritto delle figlie. Se egli ne prende un’altra per sé, non diminuirà alla prima il nutrimento, il vestiario, la coabitazione. Se egli non fornisce a lei queste cose, essa potrà andarsene, senza che sia pagato il prezzo del riscatto.» (Esodo 21, 7-11) Dal Libro della Genesi (Gen 3, 16) «Poi disse alla donna: “Moltiplicherò le doglie delle tue gravidanze; partorirai i figli nel dolore, tuttavia ti sentirai attratta con ardore verso tuo marito, ed egli dominerà su di te”.» Ed ancora dalla Prima Lettera a Timoteo (1Tim 2, 9 - 15) «Voglio altresì che le donne siano vestite con decoro, adorne con modestia e verecondia, non di trecce d’oro, di perle e di vesti lussuose, ma di opere buone, come si conviene a donne che fanno professione di pietà. La donna ascolti l’istruzione in silenzio, con piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dettar legge all’uomo, ma se ne stia in pace. Prima, infatti, fu formato Adamo e solo dopo Eva; e non fu Adamo ad essere sedotto, ma fu la donna che, sedotta, si rese colpevole di trasgressione. Tuttavia ella si salverà purché perseveri nella fede, nella carità e nella santità con discrezione». Nel costume arabo pre-islamico, la donna era considerata parte dell’eredità del defunto. L’erede poteva sposarla, darla in moglie a un terzo, lucrare la sua dote, tenerla nella propria dimora in condizioni di semi-schiavitù. La donna, finché rimane in famiglia, è sottoposta all’autorità del padre e dopo, quando si sposa, passa sotto l’autorità del marito. Nella Bibbia lo stupro era un reato contro la proprietà, perché la donna era proprietà dell’uomo. La pena di morte veniva prevista per il violentatore ma anche per la vittima, se questa era sposata. Secondo Christine Pedotti, teologa femminista francese, la concezione della donna cambia con l’avvento di #GesùCristo. Ad un Dio iroso e vendicativo si sostituisce il messaggio evangelico dell’Amore per il prossimo, del perdono dei peccati, della misericordia. Nel suo libro: Gesù, l’uomo che preferiva le donne edito da Rizzoli Libri afferma: «In più di un’occasione Gesù sembra più a suo agio e più rilassato con le donne, mentre è regolarmente infastidito, irritato, dai suoi contemporanei maschi e in particolare da quella che definisce ipocrisia nelle loro pratiche religiose». «Non troviamo la benché minima parola spregiativa nei confronti delle donne. Le donne dei Vangeli «parlano, reclamano, esigono, supplicano, discutono, e Gesù le osserva, parla con loro, le tocca, le consola, le ammira». Gesù dà visibilità alle donne e le rispetta anche quando esercitano mestieri degradanti. Nei Vangeli non troviamo nessuna parola offensiva riguardo alle donne per contro esisteva la c.d. preghiera di benedizione che ogni pio ebreo doveva recitare al mattino perché Dio non lo aveva fatto: né schiavo né donna. Pensiamo alla peccatrice che bacia e unge i piedi a Cristo, o alla professione di fede di Marta dopo il miracolo di Lazzaro. Oppure al fatto che nella resurrezione Gesù appare ad una donna e non ai discepoli. Come le donne che sono ai piedi della Croce. Gesù tocca e si lascia toccare dalle donne. Per l’uomo ebreo toccare una donna è una questione delicata. In certi periodi della loro vita le donne possono infatti essere considerate persone impure * (in molte culture ancora oggi avere il ciclo è un tabù) e chi viene a contatto con esse sarà impuro (ne parleremo più avanti). Emblematico, al riguardo, un breve episodio riportato dai tre Vangeli sinottici (Mt 9,20-22; Mc. 5,25-34; Lc 8,43-48). Una donna che soffre di emorragia mestruale da dodici anni e che è perfettamente consapevole che non le è permesso toccare nessuno, si avvicina furtivamente a Gesù, con la certezza che sarà guarita se riuscirà anche solo a sfiorare il lembo del suo mantello. Nel momento in cui il tentativo le riesce, ella avverte l’arresto del flusso di sangue e la guarigione dal male. La donna guarita, invece di dileguarsi in mezzo alla folla, si getta ai suoi piedi e confessa di essere stata lei a “toccarlo”. “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace”, le dice Gesù. O la difesa di Gesù al tentativo di dilapidare la peccatrice Maria Maddalena.
Nell’antica #Grecia, invece, la politica, le leggi, la cultura, erano materie esclusive degli uomini, le donne erano relegate all’obbedienza del padre, poi del marito; prive dei diritti riconosciuti ai cittadini adulti e liberi. Confinate, quasi incarcerate, a vivere all’interno delle mura domestiche, nella parte detta gineceo (gynaikeîon). Poche e rare le uscite, in occasione delle feste religiose o di qualche evento tipo nascita di un bambino. Se ricche avevano dei particolari agi consistenti nel controllare gli schiavi che procedevano a far i servizi in loro vece. Se povere dovevano preparare i pasti e svolgere le pulizie, ma non gli acquisti, quello era un compito affidato esclusivamente agli schiavi. L’uomo è padrone della sua vita, la donna no. Essa è un semplice strumento per la procreazione e per la conservazione del gruppo familiare assicurando all’uomo una discendenza legittima. La brava moglie non si interessarsi di questioni estranee all’ambito famigliare. Ha rispetto per il marito assecondandolo in tutto, con la pratica del silenzio e della sottomissione. Le uniche donne “libere”, se così si può dire, erano le etèree (ἑταίραι). Offrivano prestazioni sessuali, compagnia e anche relazioni prolungate con quelli che erano definiti “clienti”. In maggioranza ex-schiave o straniere, venivano iniziate alla carriera in tenera età, mutando il nome. A differenze delle altre donne potevano gestire autonomamente i propri averi ed uscire di casa a loro piacimento. Aristotele aveva una concezione particolare della donna: Se la femmina perciò generasse da sé compiutamente, il maschio sarebbe inutile e la natura non fa nulla di inutile. Egli perciò, servendosi di questo principio-base della scienza, secondo il quale ciò che accade ha sempre una causa, afferma il “primato maschile” nella riproduzione, estendendolo anche in ambito sociale: l’uomo, attivo per natura, è portato al comando, nella famiglia l’uomo è superiore alla moglie e la comanda. Secondo Aristotele perciò l’inferiorità della donna si fonda su basi biologiche.
Nell’antica #Roma, in età arcaica e repubblicana, il posto riservato alla donna era quello della domus; doveva quindi occuparsi prevalentemente delle mansioni domestiche e della formazione dei figli, in particolare educandoli al mos maiorum, il nucleo della morale tradizionale della civiltà romana. Nonostante la sua vita si svolgesse soprattutto tra le mura domestiche, la donna romana poteva uscire a fare acquisti e partecipare ai banchetti, anche se non era concesso di stare sdraiata e di bere vino (poteva solo bere il mulsum, una bevanda ottenuta miscelando vino e miele, in genere offerta all’inizio della cena in concomitanza con la gustatione). Educata ai valori del pudore, della modestia e della riservatezza, la donna romana andava in sposa molto giovane, perlopiù ad un uomo scelto dalla famiglia. Nella società romana esistevano certamente i matrimoni d’amore, ma il più delle volte quelli combinati. La donna romana viveva quindi una condizione di inferiorità rispetto all’uomo, da cui finiva per dipendere. Nella tarda età repubblica dell’impero, che assomiglia per molti aspetti a quello odierno [pensiamo alla possibilità del divorzio, che poteva essere ottenuto da entrambi i coniugi] emergono alcuni elementi, sulla condizione della donna, di natura decisamente arcaica: un esempio è rappresentato dal diritto del pater familias (marito, padre o suocero) di uccidere la matrona colpevole di adulterio.
Facendo un repentino balzo nel Medioevo vi parlerò di #olocausto sconosciuto che ha avuto le donne come vittime sacrificali: sto parlando della #cacciaallestreghe. Le pratiche simboliche come la magia hanno costituito un riferimento più che condiviso dal mondo antico, soprattutto per ciò che gli uomini non riuscivano a comprendere come il sangue mestruale, la gravidanza e la sterilità, il parto e l’aborto (…) La vulva, inquietante tentazione, diviene per gli inquisitori il luogo da cui escono bruchi e cavallette; se animali di ogni genere attentavano alla vita umana o come portatori di malattie o colpendo i raccolti con la siccità, vi era tra essi anche la vagina dentata delle streghe che mutilava i malcapitati! La caccia alle streghe non è solo una guerra contro il genere femminile in quanto tale, la lotta è contro quella trama sociale che il femminile riesce a tessere trasversalmente in una comunità. La creatività e l’autonomia spaventano e quindi stimolano repressione e controllo (…) Sui roghi arderanno in quei corpi di donne, la miseria, l’angoscia, la paura, la fragilità sessuofobica di tanti uomini e la superstizione, la semplicità e l’ignoranza ma anche la forza di tante donne”. In un edificio ecclesiastico ancora fragile, contarono anche i timori per il riaffacciarsi, dietro la proliferazione delle eresie, di un paganesimo mai completamente debellato. Questi fattori, uniti al bisogno di esercitare un controllo politico e sociale sui fedeli, favorirono una colossale azione di propaganda contro le streghe, accusate di praticare la magia nera e l’arte del maleficio, di essere strumento di Satana e fonte delle carestie e delle epidemie che affliggevano le città e i villaggi. Nel 1468, quando Paolo II stabilì che la stregoneria era crimen exceptum (delitto speciale), il compito di sradicarla cessò di essere prerogativa dell’Inquisizione e fu esteso ai tribunali civili, dove non esisteva il divieto di versare sangue imposto a quelli religiosi. Fu allora che in diversi paesi del Vecchio continente furono inventati i più disparati e crudeli congegni di tortura, a volte espressamente modellati sulla fisiologia del corpo femminile. Mentre gli assurdi e indimostrabili capi d’accusa restavano affidati a manuali come il Malleus Maleficarum dove si può leggere delle “streghe” che: «uccidono il bambino nel ventre della madre, così come i feti delle mandrie e dei greggi, tolgono la fertilità ai campi, mandano a male l’uva delle vigne e la frutta degli alberi; stregano gli uomini, donne, animali da tiro, mandrie, greggi ed altri animali domestici; fanno soffrire, soffocare e morire le vigne, piantagioni di frutta, prati, pascoli, biada, grano e altri cereali; inoltre perseguitano e torturano uomini e donne attraverso spaventose e terribili sofferenze e dolorose malattie interne ed esterne; e impediscono a quegli uomini di procreare, e alle donne di concepire…» - La strega era una donna che aveva un ruolo importante nelle comunità in cui viveva, spesso montane, conoscitrice delle erbe, rappresentata curva, ma non perché è vecchia, come poi è sembrato, ma perché era china sul terreno a scrutare la vegetazione, insieme alle erbe, ai loro poteri. La tradizione è antica e precede il cristianesimo. Le streghe facevano paura per due motivi: erano donne “trasgressive”, nel senso che vivevano ai margini, isolate, ed erano “eccedenti” alla figura prevista dal cristianesimo. E poi perché erano, in generale, erboriste eccezionali. Conoscevano le erbe che curavano e anche quelle che uccidevano. Questo irritava gli speziali di città. Per verificare la presenza di marchi invisibili, che provassero il cosiddetto “marchio del diavolo”, che spesso poteva essere anche semplicemente un neo o una macchiolina, si adottava la “prova del sangue”: se la presunta strega, dopo essere stata punta da un ago, non sanguinava allora quest’ultima doveva sicuramente essere colpevole. Queste donne, praticamente, non avevano nemmeno diritto ad un vero e proprio processo, l’inquisitore partiva con la certezza dell’accusa; sicché toccava all’accusata dimostrare di non essere una strega. Ma non avevano alcun modo per dimostrare la propria innocenza poiché, per confessare cose che fondamentalmente non avevano mai fatto, venivano sottoposte ad atroci torture.”
E in Italia? Le nostre progenitrici cominciano a vedere riconosciuti alcuni dei basilari diritti umani solo nel 1874 quando alle donne è consentito l’accesso ai licei e alle università (tuttavia molti istituti continuarono a rifiutare le iscrizioni femminili e molte professioni rimasero precluse a laureate e diplomate). Con la Legge Sacchi, nel 1919 viene abolita l’autorizzazione maritale e consentito alle donne l’accesso ai pubblici uffici, esclusi la magistratura, la politica e l’esercito. Il regime fascista promuove l’ideologia che vede nella procreazione il principale dovere della donna. I diritti acquisiti fino a quel momento vengono declassati e inasprite le leggi che sottomettono la donna alle scelte di padri e mariti.
Ma veniamo alla matrice “sessista” del Codice Rocco del 1930 che prende il nome dal Ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Alfredo Rocco, le cui norme sono rimaste in vigore fino a pochi decenni fa. Nessuna tutela reale per la donna era addirittura messa su un piano di netta inferiorità rispetto all’uomo. Come esempio possiamo partire dai delitti di adulterio (art. 559 c.p.) e di concubinato (art.560 c.p.), con cui lo Stato interveniva, con l’arma della pena, per regolare tali faccende oltre ad esercitare tale presunto diritto in forme ampiamente discriminatorie. In sostanza la moglie fedifraga, infatti, era punita anche solo per un singolo episodio di adulterio; il marito, invece, poteva tranquillamente “cornificare” la moglie, purché avesse l’accortezza – per dirla con le parole dell’art. 560 c.p. – di non tenere la sua «concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove» Solo alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso tali delitti sono stati finalmente espunti dalla nostra legislazione grazie a due interventi della Corte costituzionale che bollò la complessiva disciplina penalistica di adulterio e concubinato come recante «l’impronta di un’epoca nella quale la donna non godeva della stessa posizione sociale dell’uomo e vedeva riflessa la sua situazione di netta inferiorità nella disciplina dei diritti e dei doveri coniugali». Un altro ambito in cui la legge penale aggravava, anziché alleviarla, la situazione di vulnerabilità della vittima – della vittima donna, ovviamente – era quello disciplinato dalle norme, di chiara matrice maschilista, sulla violenza allora detta carnale (artt. 519 ss. c.p.): si pensi solo al fatto che fino al 1996 lo stupro era ufficialmente considerato un delitto contro la morale pubblica e il buon costume, e non già contro la libertà personale e l’autodeterminazione sessuale della donna. L’art. 544 c.p., che prevedeva il c.d. matrimonio riparatore, grazie al quale, se il violentatore sposava la sua vittima, il suo reato veniva cancellato. Ma forse l’esempio più manifesto di norme penali ‘impregnate’ di una cultura sessista, un vero lasciapassare per la violenza sulle donne, era costituito dai delitti per causa d’onore: se il marito uccideva la moglie «nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale o nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia» (art 587 c.p.), era punito – non già con la reclusione da 24 a 30 anni prevista in generale per l’uxoricidio (artt. 575 e 577 co. 2 c.p.) – ma con una pena quasi ridicola, la reclusione da 3 a 7 anni, per giunta quasi mai scontata in carcere per l’incidenza di diminuenti e per la prassi dell’indulto: davvero una sorta di “divorzio all’italiana”, come lo bollò Pietro Germi nel suo graffiante film con Marcello Mastroianni del 1961. E per causa d’onore potevano altresì essere commessi, con tanto di generosa riduzione di pena, oltre all’omicidio, anche i delitti di aborto, infanticidio, lesioni personali e abbandono di neonato (cfr. artt. 551, 578, 587 e 592 c.p.). La dottrina più illuminata sostenne che il delitto d’onore costituisse una sorta di «pena di morte ad iniziativa privata» «frutto di una forma mentis improntata a retrivo egoismo e di concezioni ancestrali dell’onore». Tali fattispecie sono state espunte dal nostro codice solo nel 1981.
Volgendo a conclusione del nostro percorso diremo che dal #CodiceRocco al #CodiceRosso in Italia c’è stata una EVOLUZIONE positiva nel senso di rendere ANORMALE QUELLO CHE PRIMA ERA NORMALE. Sicuramente c’è ancora da intervenire, c’è tanto da fare ma, rispetto a ieri, le donne oggi hanno dalla loro una legislazione accogliente e non segregante. Io però vorrei chieder alle donne presenti di prestare attenzione ad un tipo molto subdolo di violenza ma che esiste ed è da temere come la violenza fisica. Fate attenzione a quegli uomini che vi vorrebbero come dicono loro, che dopo qualche tempo provano a cambiarvi, a manovrarvi. Attenzione alla violenza che non fa rumore e non lascia lividi, ma fa comunque a pezzi. Attenzione, perché chi vi ama non vi fa sentire inadeguate, come se non foste mai abbastanza.
Non cercate MAI di SALVARE chi non sa amare. Salvate VOI STESSE.
Sintesi tratta da “Violenza di genere: un virus pandemico e le sue infinite varianti” prima parte del libro “Rosso Vdg-0 Antologia sulla violenza di genere” a cura di ...
Emanuela Sica