... dimenticato a Sant'Andrea di Conza
Una vera tragedia
Credo che nessuno abbia mai individuata e ancora oggi possa conoscere l’origine della esclamazione “ iam’ a scarpùn ”. Chissà da quale guizzo di fantasia tale espressione scaturì la prima volta, o da quale necessità pratica; fatto sta ...
... che, divenuta gergale, tutti in paese ne conoscevano il significato non “pedestre”, soprattutto naturalmente i ragazzi. In effetti l’esclamazione era un invito alla trasgressione, l’espressione di una gioia spontanea legata alla certezza che l’inverno del freddo e della neve era ormai passato e la primavera delle giornate sempre più lunghe e luminose era arrivata, con la fioritura dei germogli delle piante da frutto, e gli orti pieni di promesse: di “scarpùn”, appunto, cioè di fave, belle grosse, i baccelli verdissimi larghi e gonfi da scoppiare, il primo frutto fresco da assaporare della nuova stagione dei raccolti. Tutto previsto, atteso, seguito passo-passo nel tempo, dalla semina, alla fioritura delle piantine, ai turgori allettanti da gradire e consumare sul posto al momento.
Per mesi gli orti erano stati sotto attenta osservazione e controllo scrupoloso: guai alle galline o alle cornacchie che avessero osato avventurarsi tra le pianticelle in crescita!. Sant’Andrea era il paese degli orti, ogni rione aveva i suoi e ogni gruppo di ragazzi vigilava su quelli di appartenenza territoriale: guai a sconfinare.
E finalmente, a inizio di giugno, dal Serrone al Fiego, dal Lagarone alla Madonna del Latte una sola parola d’ordine: “iam’ a scarpùn”; e le fave sparivano. Al rione Monumento l’orto di zia “Petroscia” dalla notte al giorno rimaneva desolato e le bucce, rimasugli del precedente suo rigoglio, coprivano proterve la strada davanti alla bottega della proprietaria; ma senza cattiveria, o almeno così sembrava ai predatori notturni in pantaloni corti, non certo a “Petroscia” che non se ne capacitava.
E senza cattiveria, il pomeriggio fatidico, Totonno e Pasquale raccoglievano con metodo e mangiavano con gusto le fave nella vigna di Michele Maraffino, tra il mulino ed il ponte sul torrente Arso. Ma con l’orecchio teso ad ogni rumore; Michele poteva arrivare da un momento all’altro, in un amen, perché si spostava velocemente con una vecchia bicicletta da corsa, una Bianchi, ricordo di gioventù e di una lontana partecipazione al Giro d’Italia, di cui si favoleggiava in paese. Ma solo il rumore fievole della corrente dell’Arso, ancora viva nella tarda primavera, e le voci dei contadini che ritornavano in paese dopo le fatiche del giorno giungevano ai due complici tra i filari, sotto il ciliegio carico di frutti quasi maturi, obbiettivo certo di una futura fruttuosa visita. Che fave!! Le avevano sognate, evocate, desiderate, anche per fame, nella vecchia pensione di Avellino, mentre l’anno scolastico non sembrava mai finire e Andrea, “lu Bellino”, coinquilino, le magnificava tutte le sere prima di addormentarsi, raccolte e cucinate da par suo con l’immaginazione e le parole. Peggio per lui, assente nell’occasione, che fave!!. Con un po’ di formaggio pecorino sarebbero... ...l’acquolina in bocca si seccò loro in bocca ancor prima di formarsi.
I colpi di pistola echeggiarono netti e dirompenti nel calmo pomeriggio e nella tranquillità degli animi. Michele Maraffino sparava per le fave ai due ladruncoli? Macchè! Gli schiocchi secchi dei colpi provenivano dal ponte sull’Arso e anche le grida della gente in transito o che accorreva sempre più numerosa.
Approfittando della confusione uscirono dal campo di fave e non senza aver sbirciato da lontano il corpo della donna riverso in una pozza di sangue se la filarono fulmineamente. Infatti pare che in quell’occasione a Pasquale fu affibbiato il soprannome di “fulmine”. Come pure in quell’occasione pare che Totonno abbia deciso di emigrare in Australia, non senza essersi prima rifugiato, rientrato a casa, nel lettone della mamma per la notte.
Non si può non aggiungere la seguente bellissima poesia
che Fedele Giorgio scrisse in riferimento alla tragedia
e pubblicò nella sua preziosa raccolta "Ucciso Sole"
QUANDO MUORE UNA MAMMA
Sette colpi
rimbombarono cupi
al tramonto nella valle dell'Arso.
Cadde e morì nel fosso.
Era una mamma.
Inorridì la luna.
Tacquero gli uccelli.
Fu vista un'anima dubbiosa
esitare in mezzo al cielo.
Sospesa nell'aria sgomenta
con gridi d'aquila ferita
chiamò ad uno ad uno i figli sparsi.
Li abbracciò, li baciò, li benedisse.
Poi, gonfia di pianto, si affrettò a raggiungere
il meritato suo trono di pena.
Fedele Giorgio
Intanto la notizia dell’assassinio, del femminicidio, si diffondeva terribile per il corso e le stradine del paese: è stato Francobello, ha sparato alla moglie! Povera donna, non bastavano le fatiche di una vita e la botte quotidiane! Quello è scappato chissà dove e forse vuole uccidere ancora, che tragedia! I ragazzi rimasero tutti serrati in casa nella sera sopraggiunta e del passeggio lungo il corso, manco a parlarne! Lo sgomento per l’evento e la percezione della violenza terribile, inferta per giunta ad una donna, prendevano tutti nell’animo, addirittura nel corpo. Cosa avrebbero portato le ore future alla comunità?
Anche il ricordo delle vittime della guerra, della violenza inaudita dei bombardamenti, ancora vivo nella mente degli anziani, scemava nell’angoscia del momento.
Una lunga notte angosciosa fu quella che seguì, per tutti, ma specialmente per coloro che la mattina presto avrebbero dovuto iniziare le proprie attività, sapendo che in giro c’era un assassino a piede libero. Luigi “frichett”, dopo una lunga notte di travagliato dubbio, anche se con il cuore in tumulto, aprì il tabacchino come al solito la mattina alle sette, confortato, poco, dalla visione del bar aperto di Pasquale. Fu raggiunto quasi subito da Peppino “lu Murgese” che aveva a sua volta aperto bottega. – Luigi, la vita continua, tu devi vendere le sigarette e io la pasta; e poi ti pare che Francobello è ancora da queste parti? - Luigi, la faccia bianca come un mucchio di neve in un fosso, letteralmente non fiatava, osservava preoccupato Francobello che alle spalle del “Morgese”, con la pistola in una mano e un sacchetto con i proiettili in un’altra, aspettava di comprare le sigarette, le Alfa che ogni mattina portava con sé in campagna. – Luigi, ne voglio un pacchetto intero, oggi -. Il “Morgese” sparì in un attimo. Luigi gli diede le sigarette e sparì anche lui e, cosa inaudita, senza prendersi i soldi e chiudere il tabacchino. - Ma che gli prende a ‘sta gente? - si chiedeva Francobello un po’ contrariato mentre si dirigeva verso il bar. Pasquale, al banco, serviva il caffè a due napoletani, commercianti di tessuti, sul punto di iniziare il giro del paese con la mercanzia.
Con le spalle all’entrata, incuranti dei gesti strani di Pasquale, commentavano ad alta voce l’omicidio, affermando spavaldi che avrebbero fatto passare un brutto quarto d’ora a quel farabutto dell’omicida qualora se lo fossero trovato davanti. Sparirono in tutta fretta anche loro e non fecero più affari per quel giorno.
- Pasquà’, un caffè lungo, dolce e bollente e....scusami, posso appoggiare ‘sta pistola da qualche parte? Mi sono scocciato di portarmela appresso, la gente scappa appena mi vede. Ma tu capisci? “Frichett” non ha preso manco i soldi delle sigarette! Senza una parola ha lasciato il tabacchino aperto, con tutti i malintenzionati che ci sono in giro! Pure io, è da stamattina alle sei che sono in giro, sono andato pure sotto la caserma dei carabinieri....a proposito, ma tu sai a che ora apre la caserma? Ho bussato e ribussato che erano le sette, mica mi hanno aperto. Si è affacciato un graduato al balcone e sai che mi ha detto? - Gli uffici sono ancora chiusi - e mi ha costretto ad andare ancora in giro con la pistola e i proiettili che volevo consegnare.
Cose da pazzi! Ma il pazzo sono o non sono io? Pasquà non si capisce più niente a ‘sto paese. Mi dispiace per quello che ho fatto e per Rosa, mia figlia, bella come il sole, sola senza mamma e senza papà. Alle otto torno in caserma e se non mi aprono sparo tutti i colpi che mi sono rimasti e vediamo come va a finire. -
Pasquale, allibito, lo vide andare via tranquillo.
Francobello non tornò più in paese, morì anni dopo in carcere.
Evidentemente gli uffici della caserma aprivano alle otto.
Dicembre 2013
Fernando G. Basile