... caso (Michelina)
Questo simpatico racconto è stato tratto dal numero de "il Seminario" n. 3/2013. Si ringrazia l'autore e la redazione per averne consentito la pubblicazione tra queste pagine.
Un simpatico racconto santandreano
Pasquà’, te l’ho detto e ridetto già tante altre volte, ‘addret’ a lu pagliar’ non ci vengo, perciò non insistere più. Era un pomeriggio di fine estate a Caperrun’, avevamo finito di ...
... riempire i sacchi con il grano che era stato per tutto il giorno steso ad asciugare.
Nel cielo azzurro un falchetto volteggiava ... pronto a fiondarsi su qualche tortorella sprovveduta.
Pasquale era proprio come quel falchetto, agile e sempre in agguato, e mi risultava anche che qualche colombella l’aveva pure acchiappata, ma io non ero la tortora di turno.
Lo guardavo imbronciato per il rifiuto e quasi quasi mi pentivo; dietro al pagliaio ci sarei andata volentieri ma non si poteva: figlia mia, stai attenta, prima il matrimonio, mi diceva sempre mamma! E faceva buona guardia.
Mi piaceva assai. Mi era sempre piaciuto. Quando veniva a casa con i miei fratelli, era loro amico per la pelle, o in campagna per dare una mano nel lavoro, diventavo di tutti i colori per l’emozione; ma quello non mi degnava di uno sguardo, per lui non esistevo; per strada, durante il passeggio serale, guardava solo le ragazze più grandi di me ed io ci soffrivo.
E poi, la primavera precedente, proprio lo stesso giorno in cui mia madre mi disse: “Michelina, ma lo sai che ti sei fatta na bella figliola? Dobbiamo trovarti il fidanzato”, si, proprio quel giorno Pasquale mi guardò in un certo modo ed io seppi subito chi sarebbe stato il mio fidanzato, anche se lui non poteva ancora saperlo.
Non me lo sarei fatto scappare, non avrei permesso che qualche smorfiosa mettesse le mani su Pasqualino mio bello.
L’ultimo sabato di maggio, per la processione delle maggiaiole, indossai la camicetta più bianca ed aderente che avevo, in verità erano tutte aderenti ormai le mie camicette, in testa mi misi il fazzoletto con la coroncina di uva asprina e aspettai il momento. Fui io il falco quella volta ed indovinate chi la preda?
Al piano di Marcellino, durante una sosta della processione, appena Pasquale mi passò di fianco con l’aria da sciupa femmine che assumeva con me ultimamente, non cadde ai suoi piedi - per caso? - il fazzoletto con la coroncina? E il piccioncino non lo raccolse prontamente?
Il giorno dopo me lo trovai fuori della chiesa all’uscita dalla messa di mezzogiorno. Mi accompanò a casa. “Lo fidanzai” io, se così posso dire.
Intanto il sole quasi tramontava dietro monte Travaglioso, i campi imbrunivano e quello ancora insisteva.
- E dagli!!!!! Non ci vengo dietro “a lu pagliar”. Anche se domani parti e chissà per quanto tempo non potremo vederci.
Infatti il giorno dopo doveva partire, si erano accordate le nostre famiglie, i miei fratelli gli avevano anticipata la mia dote in modo che potesse andare a Napoli e imbarcarsi per Buenos Aires, trovarsi un lavoro, sposarmi per procura e farmi l’atto di richiamo.
E quello ancora a insistere!
Ma che vuoi? Vuoi un altro anticipo “addret’ a lu pagliar’?”
La sera a casa dietro la porta un bacio glielo diedi, ‘cu tutt li siens’, e con tante lacrime; Pasqualino mio mi piaceva assai assai, era una tentazione continua.
Ma fu anche l’ultima. Il giorno dopo partì. Non l’ho visto più!
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Come se mò la sentissi a Michelina: e chi l’ha visto più? È sparito, quillu delinquente, e mi voleva portare pure “addret’ a lu pagliar’!
Se sapesse!
Partii per Napoli con il "traìno di Stoppa". Tre giorni di viaggio, tre giorni di lacrime.
Quando arrivai, sulla bocca tenevo ancora il sapore dolce e salato del bacio e delle lacrime di Michelina e nel naso il suo odore di melacotogna.
A Piazza Mercato ‘na confusione!
Gente da tutte le parti, urla sguaiate che si rincorrevano tra i vicoli e tra i palazzi. Mai sentito e visto niente del genere. Ero intronato, mi girava la testa mentre percorrevo quello che Stoppa aveva chiamato il Rettifilo, al termine del quale, come mi aveva assicurato lui, sarei più o meno arrivato al porto e quindi alla nave per Buenos Aires.
Ma il Rettifilo non finiva mai, la valigia mi pesava e mi sentivo sempre più solo e spaesato.
Perciò decisi di chiedere altre informazioni. Avevo notato che da un po’ di tempo, vicino a me, camminava un giovane molto elegante, paglietta e bastone da passeggio; tutti lo salutavano con tante cerimonie.
Sarà un signore, pensai tra me e me, mò chiedo a lui informazioni.
Come fu gentile!
Volle sapere ogni cosa, chi ero, da dove venivo, dove ero diretto, se ero solo o in compagnia. Insomma, alla fine del Rettifilo o Corso Umberto come lo chiamava lui, conosceva tutto di me, più lui che il parroco di Sant’Andrea.
Arrivati quasi al porto, si sentivano le sirene dei vapori in partenza, davanti ad una trattoria si fermò e mi salutò dicendomi che più tardi sarebbe ripassato a salutarmi.
Di nuovo solo! Mi sedetti sugli scalini di una chiesa per riposarmi della lunga camminata. Ero lì da una buona mezzora, sempre col pensiero del lungo viaggio che mi aspettava e di Michelina che avevo lasciato, quando ti vedo arrivare una signorina elegantissima. Si ferma e fa: - Pasquale! Ma tu non sei Pasquale Gaudiosi! Sei tale e quale a tuo padre!
Io in verità non l’avevo mai notata la somiglianza ma quella insisteva. Tuo padre è stato compare di nozze dei miei genitori, quando abitavano ancora a Sant’Andrea di Avellino - di Conza? - sì sì di Conza, mamma ha una fotografia a casa, sei identico a tuo padre. Ma ci pensi! Siamo compaesani, siamo compari - e bello buono mi abbraccia.
Ohi Michelina mia! Ma tu quale melacotogna, quella profumava come un intero prato di viole, non capii più niente. Ci sedemmo in trattoria, mangiammo alla grande, e da granduomo pagai tutto io. Pure il caffè del giovane elegantone che sorridente era entrato in trattoria, aveva salutato con galanteria la signorina, anzi Sissì, così l’aveva chiamata e se ne era andato, non senza avermi fatto l’occhiolino.
E Sissì qua e Pasquale là, Pasquale su e Sissì giù, sempre più compari, mano nella mano, avvolto di profumo di violetta, mi portò a casa sua.
Ma tu “qualu pagliar’!", quella era una reggia, velluti e specchi dappertutto, signori e signorine che entravano e uscivano, tutti ospiti della mamma, che sembrava la Quaresima in persona.
Per i giorni successivi uscimmo solo per pranzare nella trattoria; anche con il giovane signore, don Gennaro si chiamava; oramai, o da prima?, compare pure lui.
Ma la mattina che mi ritrovai senza più un soldo, senza la valigia, senza comare e compare, svaniti nel nulla, solo in mezzo a un vicolo sconosciuto dell’angiporto, la nave per Buenos Aires già in alto mare, quella mattina, con solo i documenti di viaggio in mano, malgrado fossi ancora impregnato di profumo alla violetta, uscii finalmente dal sogno, mi svegliai.
E fu un brutto risveglio.
Dopo aver pensato per un po’ di buttarmi a mare, feci la cosa più sensata: tornai a Piazza Mercato e mi aggregai ai carrettieri che tornavano a Calitri con i carichi di mercanzie. Che giorni!!! Nu viaggio!!!!! Di notte, per non incontrare nessuno, meno che mai i quattro fratelli di Michelina, mi presentai a casa, a Sant’Andrea.
A tat’ per poco non gli veniva un colpo.
Ma si riprese subito, mica mi credette quando gli dissi che mi avevano rapinato lungo la strada, a “Lu male pass” sopra Avellino!
Disse solo: ah la mala femmina!
Ed uscì di casa chiudendomi dentro a chiave.
Tornò che la campana della chiesa madre, nel silenzio della notte, batteva le tre.
Tié sti soldi, ho impegnato tutto il grano di quest’anno. All’alba da Castelnuovo parte la carrozza per Napoli, pigliala e appena arrivato imbarcati sulla prima nave che trovi.
E speriamo che non ti veda nessuno, anzi, non farti più vedere da queste parti se ci tieni alla pelle.
A Napoli trovai un vapore che stava lì per lì per partire. Un marinaio mi chiese: hai i documenti a posto e i soldi? Gli feci vedere i documenti, ma i soldi li tirai fuori solo a partenza avvenuta.
Finalmente dopo quasi tre mesi di mare oceano e torcimenti di intestini arrivammo in un porto di una città distesa ai bordi di una baia che non finiva più.
Mi dissero dove eravamo, ma non dovevo andare a Buenos Aires?, mi dissero che eravamo a Sidney, - dove? - a Sidney, in Australia; io manco sapevo che l’avevano scoperta. E così divenni australiano per caso.
Dopo qualche giorno, non so come, capirono che ero contadino e mi mandarono a tagliare canne da zucchero in un altro posto lontanissimo.
Na faticaccia! Come a Caperrun a la metenn’.
Ma a fine settimana arrivava la paga, bella fissa e senza storie. E così divenni australiano per sempre.
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L’ho saputo l’anno appresso dove era finito. In Australia, mi dissero i miei fratelli, con in mano i soldi che lui aveva restituiti.
Gli stessi soldi che tenevo cuciti all’interno della gonna mentre salivo sul bastimento, io sì diretta veramente in Argentina, sposata per procura dal figlio di un compare di famiglia.
Sono passati tanti anni, tengo figli, nipoti ed una vita felice, eppure ogni tanto, quando il sole tramonta dietro i palazzi di Buenos Aires, ancora mi chiedo: e se fossi andata “addret’ a lu pagliar’?”
Fernando Basile