Un altro notevole post dell'amico Gerardo Vespucci!
Ieri sera su RAI Play ho avuto la fortuna di ri/vedere la riduzione cinematografica, realizzata da Francesco Rosi in quattro episodi, di Cristo si è fermato ad Eboli, il geniale capolavoro di Carlo Levi che, come tutti i classici, è un ...
... sempre verde, mai appassito.
Nel film, ma non nel libro, al termine della discussione con la sorella, che da Torino era scesa giù ad Aliano, dove egli era stato confinato e che lui chiamava Gagliano, Carlo Levi si concede un momento di lettura ad alta voce:
«[…] Lascerai la casa, i pascoli acquistati e la villa che ti bagna il biondo Tevere, e te ne andrai, e l’erede verrà sopra tutti i tuoi beni ammucchiati, ricco o povero, della stirpe di Inaco o plebeo, ugualmente sarai preda del Tartaro spietato. Andiamo tutti ad una sola sede, per tutti si agita la sorte nell’urna, e prima o poi uscirà il nostro numero e ci imbarcheremo sulla barca per l’eterno esilio».
La sorella, senza indugio dice: è Orazio? Che bello!
Per prima cosa ho cercato l’ode da cui sono tratti i versi, di cui comunque conoscevo già il riferimento all’urna che prima o poi farà sortire il numero: è l’ode III del Libro II, dedicata a Quinto Delio, un suo amico ricco e potente.
E così mi son detto: Orazio, duemila anni dopo è come se fosse ancora vivo!
E subito un pensiero si è fatto strada: poveri personaggi del presente che credono di essere il sale della Terra.
Un Elon Musk, un Trump, per quante generazioni resteranno nella memoria?
Di Steve Jobs che pure ha fatto la fortuna di Apple, oltre la sua, cosa è rimasto appena dopo 15 anni dalla morte?
E del mio coetaneo Bill Gates cosa resterà? E dei multimiliardari che messi insieme hanno più soldi di interi Stati, cosa mai diranno i posteri se non quattro (o quattromila) righe su Internet?
Ed invece di Orazio siamo ancora qui a leggere e rileggere le sue Odi, perché?
Perché, come egli già sapeva, con i suoi versi aveva colto elementi eterni dell’essere umano: exegi monumentum aere perennius (ho eretto un monumento più duraturo del bronzo!).
E quindi sapeva che sebbene mortale – moriture Delli – (o Delio sei mortale) non omnis moriar (non sarò morto del tutto), perché?
Perché a (far) parlare di lui resteranno i versi, belli e profondi, che hanno cercato di cogliere della vita il senso più semplice e più vero, insieme.
«Dicar, qua violens obstrepit Aufidus e qua pauper acquae Daunus agrestium regnavit populorum, ex umili potens, princeps aeolium carmen ad italos deduxisse modos» (Odi XXX Libro III), cioè "laddove l’Ofanto rumoreggia e dove Dauno regnò su genti povere di acqua (Venosa, dove era nato!) si dirà che io nato umile divenni famoso e per primo portai l’Eòlio canto nell’armonia italica".
E cosa ha cantato Orazio da renderlo così famoso?
I temi e i modi che Orazio ha portato avanti nelle sue opere immortali sono tanti e tra i più disparati, guardati sempre con animo imperturbabile e con un sorriso bonario: dall’osservazione dei comportamenti umani come l’amicizia all’esaltazione della natura, e della vita in tutte le sue espressioni, da quelle più semplici a quelle più sfarzose, sempre essenziale nei suoi versi, cogliendo in ogni momento gli aspetti più significativi ma anche piacevoli:
«Vides ut alta stet nive candidum Soracte nec iam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constiterint acuto! Dissolve frigus ligna super foco large reponens atque benignius deprome quadrimum Sabìna o Thaliarche, merum diota. Permitte Divis cetera» (Odi IX Libro I).
"Vedi il Soratte come tutto è candido per l’alta neve. Già le selve cedono fiaccate dal peso, ed i fiumi si son rappresi per l’acuto gelo. Sciogli il freddo aggiungendo in gran copia legna sul focolare, e mesci in abbondanza o Taliarco quel vino puro di quattro anni dalla brocca Sabina, a due anse. Lascia il resto agli Dèi!"
Come si può già vedere, in Orazio i versi descrivono situazioni comuni, semplici gesti, ed indicano modalità concrete di godere degli attimi nella maniera più immediata: la fiamma del focolare, un bicchiere di vino e il lasciarsi andare.
Ma egli soprattutto ha cantato in tanti modi differenti il tempo che ci è concesso vivere, che scorre inesorabile:
«Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni, nec pietas moram rugis et instanti senectae adferet indomitaeque morti (Odi XIV Libro II)».
"Ahimè, fuggevoli, Postumo, Postumo, scorrono gli anni, né la religiosità arrecherà ritardo alle rughe e alla vecchiaia che incalza e alla morte inevitabile".
Addirittura, egli dice, “mentre parliamo, fugge il tempo invidioso”: «Dum loquimur, fugerit invida aetas».
Ed è per questo che egli ci invita a non renderlo vano con obiettivi insensati credendo di riempire la vita con il possesso delle cose, mentre è proprio così che la svuotiamo: «spatio brevi, spem longam reseces. Carpe diem, quam minimum credula postero» (Odi XI Libro I)».
E veniamo al punto cruciale da cui siamo partiti: per Orazio, ogni illusione che contiene grandi progetti, grandi imprese, che portano ad accumulare ricchezze sono ben poca cosa per vivere bene, perché? Perché sullo sfondo c’è la morte! E la morte non distingue ricchi da poveri, tutt’altro!
«Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres (Odi IV Libro I)».
"La pallida morte bussa con piede eguale ai poveri tuguri e ai palazzi del re": non so se mai leggeranno questi versi i nostri illusi conquistatori di Stati e di ricchezze, convinti che l’esercizio del potere estremo possa dilatare il tempo.
Noi per fortuna non abbiamo mai creduto al potere, né che il piacere del comando possa riempire una vita.
E con Orazio crediamo siano preferibili altri modi di vivere la vita:
Rectius vives, Licini, neque altum |
O Licinio, vivrai più giustamente, |
Un'altra notevole riflessione dell'amico Gerardo!
Solo così possiamo commentare le parole che ha scritto nell'ennesimo post su FB e di sopra riportato. Dobbiamo aggiungere, tuttavia, che abbiamo apprezzato e ci hanno rasserenato molto le citazioni del grande Orazio.
È inevitabile e comunque opportuno, però, dire anche che avevamo già pensato e scritto sulla "... azione impietosa del tempo che, col suo ciclico svolgersi, tutto trasforma, offusca e cancella, palesando l’irrilevanza e l’illusorietà della vicenda umana" [così avevamo concluso, forse con eccessivo pessimismo ma dopo esserci resi conto della ineluttabile fine delle più facoltose famiglie santandreane del passato in «Potito Cianci e il suo tempo» 2005].
Ma in quel caso, per colpa dell'ignoranza che ci contraddistingue, non avevamo riflettuto sulla possibilità di poter godere, nella breve parentesi della vita che ci è concessa, delle piccole cose e soprattutto sul saper affrontare equamente la buona e la cattiva sorte, ed anche su come pensare alla propria esistenza fatta di vicende alterne, le cui dinamiche spesso sono e restano misteriose e come tali rendono necessario porsi nell’atteggiamento di umiltà di fronte ai misteri dell’esistenza, senza rinunciare alla sana sete di conoscenza dell’uomo e tuttavia senza slanci di delirante onnipotenza, purtroppo sempre più dilagante nell'odierna realtà.
R. C.