Ancora neve ...

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Pulcinella di paese

Una rappresentazione ... storica

Proponiamo il racconto principale che Luigi Limongelli riportò nel suo libro, al quale diede lo stesso nome.

Il padre era molto stimato in Santandrea ed anche nei dintorni. Forse per questo i concittadini lo chiamavano, con molto garbo e con molto rispetto, « don Pietro(1) ». Ma quando, don Pietro non era presente, per meglio individuarlo usavano ...

... una espressione più completa « don Pietro la cozza ».

La parola « cozza » dovette derivare da « cozzo », dar di cozzo, dar del capo. « Cozza » — per quella buona e poco istruita gente — significava proprio « capo ». Effettivamente, un motivo c’era per averlo sistemato cosi. Don Pietro — a cinquant’anni — aveva il capo pulito pulito, senza neppure un capello; né davanti e neppure dietro. Sembrava una palla d’avorio, da bigliardo. Ma — io penso e forse sarò meglio nel vero — la parola « cozza » era una derivazione dall’espressione « cozza di morto». Il popolino diceva proprio così « ho visto ‘na cozza de muorto ».

A farla breve, se l’uomo meritava tanta distinzione e tanto affetto da parte dei parenti, degli amici e dei conoscenti, quel capo era il complesso di un poema eroicomico, totalmente burlesco.

La verità era una sola, che nessuno mai aveva avuto da dire con don Pietro. Gli volevano tutti bene, perché aiutava ricchi e poveri, ed era — in ogni dura contingenza — accanto ai bisognosi. Anche il famoso brigante Crocco — il terrore delle valli dell’Ofanto e di quella del Sele, di Monticchio, dei boschi della Basilicata e delle foreste che confinano con la Calabria — gli mandava – quando ne aveva la buona e sicura occasione – tante « distinte reverenze », accompagnandole con un paio di piastre d’argento di Maria Carolina.

* * *

Tre figli ebbe don Pietro; tre figli che non corrisposero ai suoi desideri: Leonardo, Francesco ed Antonio che i familiari chiamavano « Antonuccio ». Leonardo fu di grande intelligenza, vivace e battagliero. Francesco fu geniale ed impastato d’ironia. Chi gli capitava dinanzi lo decorticava vivo con le sue sorprendenti e continue boutades. Antoniuccio — con l’argento vivo nel sangue — era stato destinato al sacerdozio.

Don Pietro — non contento di quei tre diavoli scatenati, come diceva la servitù — s’era andato a cercare un’altra « rogna », allevando una bimba che volle adottare e poi le dette anche marito. La chiamò Concetta e – quando passò al matrimonio — la costituì di panni e dote. La moglie di don « Pietro la cozza » si chiamava Maria Luigia, la quale aveva le mani bucate, perché il suo cuore era grande quanto la cupola di una chiesa.

Leonardo, Francesco ed Antoniuccio furono ammessi al Seminario a frequentare le elementari. Il Seminario – a quei tempi — godeva grande fama: quella di farsi ammirare come luogo di studi serii e... positivi. Don Pietro e donna Maria Luigia conoscevano tutti lì dentro: dall’Arcivescovo Nappi ai professori, preti anche questi, coi quali erano, anzi, in confidenza. Se non erano ben trattati quei ragazzi, chi altri potevano godere tanto privilegio? Fu così che Leonardo e Francesco frequentarono le classi elementari — sino alla quinta — e non giuro se fossero ammessi alla prima classe ginnasiale.

Mentre Antoniuccio — che si distingueva a tutto andare, anno per anno, superando il ginnasio ed il liceo e ammesso con ottima votazione ai corsi della sacra Teologia — aveva già meritato i « quattr’ordini ». Leonardo e Francesco — dopo aver vagabondato qualche anno — si misero in mare verso l’America del nord, un viaggio lunghissimo quello. Durava sino a quaranta giorni sempre tra cielo e acqua salata, ora in bonaccia ed ora ringhiosa.

Quello era il vero viaggio che voleva significare « morire un po’ ». Gli emigranti d’allora — prima di muoversi dalle proprie case — facevano testamento. Ma i due fratelli — che non avevano nulla all’attivo sia in beni immobili, tanto meno in contanti — si limitarono ad abbracciare i genitori piangenti, qualche parente, i buoni amici e le ragazze che nutrivano sicure speranze al loro ritorno. Dissero « addio » con le lacrime agli occhi e con molto coraggio in corpo.

* * *

Antoniuccio — che sembrava avesse trovata la buona strada e che già si era fatto apprezzare per alcuni discorsi tenuti dal pergamo, in chiesa, al popolo, in diverse circostanze religiose — batté in ritirata anche lui. Eppure aveva dimostrato che — continuando di quel passo — avrebbe fatto parlare di sé: eloquio nutrito, denso di pensiero e di documentazioni conclusive, ignorate le esagerazioni, modo elegante di porgere, chiarezza e misura, voce intonata e suasiva.

Don Pietro — quel terzo figlio — lo guardava con occhi di meraviglia. Se lo avesse potuto gonfiare d’ogni ben di Dio, lo avrebbe fatto con tutte e due le mani. Egli lo voleva un figlio dotto; lo voleva un figlio completo; un figlio che avesse dato lustro alla casa. Pensava – lui – che facendolo prete... da prete a papa il passo era anche breve. Che c’era da sormontare lungo la via? Tre scalini soltanto: vescovo, arcivescovo e cardinale!? E ci sarebbe voluto tanto?! « Eh — ripeteva tra sé e sé — quando si ha la « cozza » buona, s’arriva anche in paradiso ».

Il bravo giovane — purtroppo — fu invaso dal demonio e nella « cozza » vi entrò lo spirito maligno d’una donna, giunta di fresco da Napoli, e napoletana tutto sangue.

Il guaio vero e proprio fu che San Luca — che sapeva dipingere soltanto il bello — volle divertirsi con Antoniuccio, il figlio di « don Pietro la cozza ». Lo fece più bello di quello che avrebbe dovuto essere. Fattezze superbe, aitante, disinvolto, signorile. Fu un vero e proprio capriccio quello di San Luca!

Quando si dice « destino »! La signora napoletana andò in chiesa, proprio quel giorno in cui — dal pergamo, anche se non ancora era stato unto degli ordini maggiori — Antoniuccio esaltava le virtù mirabolanti della Vergine, della concezione senza peccato, della madre di Gesù condannata — poi — a subire tutti i dolori che la vita terrena non risparmia a nessuno.

La napoletana — attraverso l’occhialino — levò capo verso il pergamo e, per un’ora buona, non abbassò più gli occhi. Vederlo, udirlo, innamorarsene fu tutt’uno. Passione senza… appello. Violenta. Travolgente. Dinamitarda. Accadde quello che doveva accadere. Le minacce del marito furono vane. La reazione dell’amante focoso non ebbe freni nel cuore giovane. Si ebbe lo scandalo. Anche Antoniuccio dovette — per evitare più gravi guai – prendere la via del mare, come gli fu consigliato. Partì.

* * *

Era bizzarro e capriccioso quel giovanotto. Egli, testardo, non seguì l’orme dei fratelli che avevano presa la via del nord-America. Antoniuccio volle raggiungere il Brasile. Terra ancora sconosciuta quella, dalla quale si potevano sperare presto buoni frutti. Lavorare con intelligenza – pensava lui – a danaro contante ed abbondante. Ma, il destino non la pensava così. Quel paese ancora selvaggio gli mise nell’animo un sentimento strano. La patria — l’Italia — era un’altra cosa per lui. Era tutto e guai a toccarla.

Il caso volle che – un bel giorno – in un bar, dove confluivano genti di tutte le razze, un germanese si permise far cenno alla sua terra con qualche celia di poco gusto. Non si fosse mai permesso. « Paf » e « paf »! Due manrovesci caddero sul viso del gigante Golia che rintronarono nel locale. Si ebbe un trambusto da parte dei presenti. Vi furono favorevoli e contrari. I simpatizzanti erano i più. Ma le cose vennero accomodate con una sfida sul terreno.

Il duello — cosa strana nelle Americhe stranissime! — ebbe luogo a cavallo. Il germanese montava un mastodontico destriero come quello di Rodriguez Alves — presidente di quel paese — quando passava le truppe raccogliticce in rivista. Il figlio di don Pietro la « cozza » — invece — cavalcava un cavalluccio leggero e sveltissimo nei movimenti. Fatto sta che lo scontro durò poco, perché Antoniuccio — soldato com’era stato — con due fendenti disarcionò l’avversario ma — preso da timor panico dalle possibili conseguenze di legge che non conosceva ancora – voltò il cavallo, dette di briglia e lo spronò verso i confini col Paraguay. Si disse che – durante il doloroso cammino – fosse stato assalito dalla febbre gialla che lo tenne in vita non più di tredici o quattordici ore.

* * *

Leonardo – di temperamento nostalgico come lo provarono i fatti – si fermò a New York circa due anni ma il paese, l’affetto per i genitori, per la sorellastra, per i concittadini, per qualche donnina lo tormentarono durante tutto quel tempo. Non potendone più, decise di rimbarcarsi e di rientrare in patria. Durante due anni aveva lavorato sodo, facendo di tutto. Aveva accumulato qualche po’ di dollari, aveva riempito due o tre bauli di biancheria finissima, di oggetti varii, di argenteria, aveva imbottito una cintura di cuoio di sterline e dollari oro, con le aquile ad ali aperte e prese la via del ritorno. Il viaggio – narrò – fu dei più pericolosi ed angustiati. I cavalloni pareva toccassero il cielo, che era nero e il vento – con la sua forza – fermava il vapore sulle onde sconvolte.

Leonardo disse ai suoi: – Io mi ero già riconciliato con Dio ed attendevo sereno la sua decisione! – Ma – come d’incanto – il tempo si fece bello e la nave cominciò a scivolare su di un mare di olio!

Il fratello Francesco era di sentimenti più duri. Volle resistere a tutti i pensieri infarinati di nostalgia per il paese natio. Volle restare e si buttò a capo fitto negli affari. In pochi anni fu padrone di tutti gli alberghi di Bridgport, nel Connecticut. Denari ne metteva insieme a palate; ma – non si sa quale dio lo perseguitasse o lo proteggesse – egli un anno era ricco come un Creso e l’anno dopo il più povero degli americani. Andava come vanno gli alberi di ulivi: un anno sono carichi, l’anno seguente sono vuoti. Però, quando era povero, Francesco sapeva fare la fame con molta… dignità.

Di lui, i compaesani che rientravano a casa – dopo anni d’America – ne dicevano tanto bene: che era attaccato ai concittadini e a tutti gli italiani in genere. Li aiutava, li indirizzava, li prendeva con sé a lavorare. Li trattava da signori. Nessuno si allontanava da lui a mani vuote. Li seguiva nel lavoro. Quando si ammalavano li forniva di denari senza domandarne mai la restituzione. Lo chiamavano la « Provvidenza ».

Faceva parte di tutti i sodalizi italiani: della città dove risiedeva, di Newark, di New York, di Orange, di Stamford e di tant’altri siti abitati. Presidente di Società Operaie, di Circoli, di Unioni. Parlava benissimo la lingua, e le sue aderenze giungevano sino a quelle del Presidente della Repubblica stellata.

* * *

Leonardo – tornato a casa – non conservò nulla per sé, se non qualche capo di biancheria. Dette tutto alla mamma, la quale – abituata com’era – donò a destra e a sinistra, tanto che il figliuolo restò senza il becco di un quattrino e senza più biancheria. Troppo tardi, egli si accorse che aveva innanzi a sé un avvenire da affrontare. Non si scompose. Avvicinò uno degli amici di famiglia, don « Giacchino » – l’economo del Seminario – e gli domandò trecento lire in prestito, con le quali aprì un negozio, una specie di emporium, che contava tutti i generi occorrenti a una cittadina di tremila abitanti.

Per contrarre matrimonio, dovette ricorrere, in S. Angelo dei Lombardi, ad amici del padre « don Pietro la cozza ». Di famiglia nobile e specchiata fu la prescelta, robusta e bella, alta più del normale; educata, istruita, benpensante; seria, affettuosa, attaccata alla famiglia; la parentela era vasta e d’antichi casati.

La moglie di Leonardo dette molta prova di sé: fu specchio di onestà ed esempio di laboriosità nel paese di adozione. Visse per la famiglia e l’amò sino al giorno della sua morte, a novant’anni suonati. Riservata sino allo scrupolo. Non amò le comitive. Non ebbe amicizie. Non frequentò famiglie.

Leonardo – al contrario – era un democraticone del più alto carato. Era attaccato ai concittadini d’ogni categoria sociale: professionisti, artigiani, preti e contadini. Un paese non dà più di così. Egli fu vicino alla cittadinanza in tutte le circostanze; in quelle belle e in quelle sciagurate. pronto a dare e pronto ad occuparsi della sua sorte. Era un lavoratore d’eccezione: il negozio l’assorbiva. per ogni cosa aveva un ripostigli. Una merce non doveva andar confusa con altra merce.

Per accreditare il suo emporium – ora accresciuto anche di oggetti preziosi – viaggiava spesso sino a Napoli, dove faceva rifornimento. Ed a Napoli sapeva innestare l’utile al dolce. Frequentava i teatri d’allora: l’Eldorado, il Teatro Nuovo, il Fondo, il San Ferdinando, il San Carlino, dove recitavano pulcinelli della statura di Antonio Petito, di Giuseppe De Martino, di Eduardo Scarpetta, quest’ultimo creatore della maschera di « Feliciello Scioscammocca » che faceva scompisciare dalle risa la cittadinanza, i forestieri e gli stranieri che vi capitavano. Al San Ferdinando, invece, il cavaliere Stella faceva strabiliare per le parti forti e patetiche che vi sosteneva, ed il pubblico piangeva ed applaudiva.

* * *

Il figlio di « don Pietro la cozza » il teatro lo sentiva. Amava però più il comico che il tragico. Preferiva di più la farsa. Con questi sentimenti e con questo trasporto in sé, un bell’anno – quale? – dette, a casa sua, appuntamento alle persone più in vista del paese: Saporito, segretario comunale; Francesco De Laurentis; Giulio Solimene; il medico Emilio Bellino; il farmacista Giuseppe Nicola; l’insegnante don Ciccio D’Angola; il sarto Matteo Cardone; il prof. Vincenzo Giorgio; lo studente Michele Mastrodomenico; lo universitario in farmacia Clemente De Guglielmis ed altri e tenne loro questo discorso: - « Lo facciamo o non lo facciamo il teatro durante questo Carnevale? ». Il discorso, intanto, veniva innaffiato da certo vino di bottiglia da cui, quando saltava il turacciolo, lo scoppio faceva eco in tutte le altre stanze: « pum » ! « Dobbiamo proprio essere al di sotto degli alunni del Seminario? La vostra intelligenza l’avete perduta col… crescere?! Suvvia, un po’ di buona volontà occorre e nulla più. All’opera, dunque, e con molto entusiasmo ».

Bastarono quelle poche parole, perché lo spumante le facesse diventare polvere pirica, parole alla Tirteo. Infatti, i convenuti – dopo aver discorso un po’ e dopo aver gettato le basi di una vera e propria organizzazione – decisero per tre recite: domenica, lunedì e martedì di Carnevale. E – se fosse avanzato del tempo per la preparazione – si sarebbe avuto anche una recita durante il sabato, la vigilia.

Il dirigente – oggi si chiama regista – fu don Giulio Solimene, il più accreditato, perché il più intelligente e il più disinvolto. Le prove – appena imparate le parti – ebbero luogo tutti i giorni. Si dovettero scegliere – però – drammi ai quali mancavano le donne, perché – a quei tempi – parlar di far recitare una signorina, significava farsi dare la baia.

Eppure, le cose andarono come era nell’animo di tutti; riuscire nell’intento per offrire un divertimento alla cittadinanza operosa, la quale – fino a quel momento – era vissuta tra la campagna, la scuola, le officine, i laboratori, i caffè e le cantine.

* * *

Il campo di battaglia fu la vastissima sala della Società Operaia. Bisognava vedere. le api erano uscite dall’alveare, quindi era difficile farle rientrare. Il lavoro venne iniziato. Non un cittadino se ne stette con le mani in mano. Ognuno offriva quello che poteva dare: travi, tavolini, legni scanni, scale, martelli, tenaglie, chiodi, tela per le scene, mussola per il sipario e per gli sfondi.

I falegnami andavano e venivano: segavano, passavano la « chiana », schiodavano ed inchiodavano. Fecero un lavoro – come usa dire laggiù –« a quel Dio biondo! ». Perfetto. I pittori, poi, sveltamente imbastirono un sipario ammirevole. Seguirono gli addobbatori. Il teatrino venne allestito al completo. La sala fu adornata di festoni d’edere e di bandierine tricolori. La platea ebbe la prima fila con poltrone; una diecina di file di sedie; il rimanente della sala fu completata con gli scanni che dette in prestito l’Arciprete.

Non poteva mancare l’orchestrina durante gli intervalli. Essa venne organizzata dal valorosissimo Luigi Giorgio – cieco, purtroppo – il quale aveva frequentato la rinomata scuola di San Pietro a Maiella in Napoli. E la cittadinanza applaudì non soltanto la maestria dei musicanti, ma anche riconobbe la valentia del direttore del concerto.

I drammi prescelti avevano tutti uno sfondo patriottico: Tommaso Moro, Pietro Micca, Cesare, Alessandro de’ Medici, Filippo Strozzi. I cittadini più in vista aspettavano alla prova del fuoco i nuovi « guitti ». Tutti pensavano che, se i drammi potevano salvarsi, non così la farsa alla quale partecipava la figura difficile del pulcinella.

- Se… se… (dicevano i più, e forse con criterio anche) per disimpegnare la parte del pulcinella ce ne vuole. Pulcinella bisogna nascere. Erano queste le parole che furono dette da qualche studente presuntuoso che frequentava la città di Napoli. Qualche altro (i soliti mestatori, che oggi si direbbero « guastatori » ) sbottava in una risata da ebete e diceva: - Quelle sere mi voglio « sazià » di fischi! In teatro si può fischiare, ed io fischierò!

Il pubblico – come si vede – non era mica tranquillo e neppure ben disposto a indulgere verso coloro che si erano imposti tanti sacrifici per divertirlo durante il carnevale.

* * *

La prova del fuoco già scoccava. Alla porta della Sala Operaia occorsero i carabinieri e la guardia comunale per mantenere l’ordine e per evitare l’invasione degli ubriachi, per i quali v’era ordine severissimo di allontanarli. Con tutto ciò, qualche pugno volò, ma l’ordine venne subito ristabilito, poiché i militi dettero prova di molta fermezza e di assoluta intransigenza. E quella sera, la popolazione di Santandrea imparò come doveva contenersi in simili contingenze: essere soprattutto educati e rispettosi; approfittare soltanto del proprio turno; attendere che i primi abbiano preso posto; evitare gli assembramenti; mantenere un contegno dignitoso; aborrire gli schiamazzi e gli strilli.

Queste cose, infatti, non s’imparano tutto in una volta. La seconda sera, però, la popolazione fu più disciplinata, cedendo anche il passo agli anziani, alle donne ed alle autorità. La terza sera, l’avvio procedette come olio filtrato. In teatro, più di qualche signora sfoderò vecchi guanti e ventagli di osso di balena e merletti di quelli che oggi varrebbero un tesoro.

La prima sera. Appena cessata la marcia dell’Aida il sipario – tra il silenzio generale – si levò lentamente. La rappresentazione ebbe inizio. Gli attori – un pochino pochino incerti, perché presi da timor panico alla presenza del pubblico – si andarono riprendendo via via. Alla quarta o quinta scena di « Tommaso Moro » marciarono con sicurezza. Quando si fu alla decapitazione, il momento tragico era giunto al colmo. La palpitazione degli animi degli astanti teneva sospeso nella strozza il respiro. In fondo, la scena rappresentava storicamente il terrazzo della torre di Londra, dove il delitto venne perpetrato. Si udirono ben distinte e – con animo commosso ma fermo – le parole di Tommaso: « Dio preservi gli amici miei da tal favore, e voglia che i miei figli non ne abbiano mai bisogno! ».

Il pubblico lacrimava. La prova era stata superata brillantemente. La recitazione – qualche volta cadde nella cantilena, che è propria della parlata locale; ma il resto fu superbo. Nella sala scoppiò un uragano: gli applausi non accennavano a calmarsi neppure quando l’orchestrina intonò la « Marcia reale »!

* * *

Che doveva essere ora della farsa? Il pubblico era sotto l’impressione di una scena così patetica che ce ne sarebbe voluto per smuoverlo e farlo ridere. Il « butta fuori » venne oltre il sipario ed annunziò il titolo della commedia: « Pulcinella marito senza mugliera, zio senza nepote » di Marulli. Nelle seguenti serate sarebbero state rappresentate: « Ammore, spusarizie e mazzate » di Antonio Petito; infine : « ‘O matrimonio ‘e don Felice con pulcinella portapullastre ». Tre lavori di gran classe, ai quali avevano dato tutto l’amor proprio pulcinelli che si chiamavano: Silvio Fiorillo, Bartolomeo Cavallucci, Francesco Barese, Vincenzo Cammarano, Gennaro Luzio, Trabalza, Adriano de Cenzo, Vincenzo Stella, Raffaele Scelzo, Petito stesso, de Martino e molti altri.

È proprio vero che le cose difficili si risolvono più facilmente e sempre più felicemente. Leonardo – sotto la maschera del pulcinella – e Matteo Cardone furono i protagonisti. Nella scia si trovarono altri attori anche ottimamente preparati. Sin dalle prime battute, il pubblico fu totalmente conquiso. I dialoghi di spirito, la prontezza, la mimica indovinata, la grazia, i lazzi, i sberleffi si protrassero fino alla fine. Gli intervenuti ridevano a più non posso. I battimani – allora la claque non esisteva o almeno non si sapeva che cosa fosse e in che consistesse – si seguivano ininterrottamente. Trovate ed improvvisazioni, l’una dietro l’altra. Il figlio di « don Pietro la cozza » – padrone del palcoscenico – aveva vinto la bella battaglia. I « guastatori », che erano venuti per fischiare, furono i primi a dare il segnale degli applausi e delle ovazioni. A recita terminata, la folla non voleva allontanarsi di là. Ci aveva preso gusto. Essa non aveva domandato – con « bis » – la ripetizione di qualche scena, pretendeva addirittura la ripetizione totale della farsa.

Ci volle del bello e del buono per persuadere i più riottosi che non era possibile, che ciò non era consentito, che gli attori erano sudati e stanchi, e che già qualcuno era riuscito a svignarsela dalla sala.

Che fare? Il pubblico ne era entusiasta, e pretendeva… Venne accontentato con un paio di suonatine dell’orchestra. Ma quando, Leonardo e Matteo Cardone presero la via di casa, seguì il codazzo degli entusiasti, gridando a viva voce: - Evviva Pulcinella! Evviva Pulcinella del nostro paese!

* * *

L’anno dopo, le cose mutarono. Non fu più il figlio di « don Pietro la cozza » a invitare gli amici a fare del teatro; ma gli amici dovettero pregare e strapregare Leonardo a prendere parte alle recite.

Tutti affermavano in giro: che la recita del dramma era bella e che i drammi facevano piangere, ma… pulcinella era pulcinella, e la farsa era… la farsa, durante la quale – per l’allegria sconcertante – si dimenticava tutto. La vita, dopo, riprendeva più bella. Sembrava che l’ora trascorsa ad udire pulcinella e gli altri personaggi napoletani fosse un’ora tonificatrice dell’esistenza: si diluivano i guai; i mali sparivano; le sciagure non erano più di questa terra; gli occhi non avevano più lagrime; il petto non più sospiri.

In breve, pulcinella – ora furbo, ora scemo, ora pazzo, ora buono, ora maligno, ora accattone, ora munifico – era un personaggio che ci sarebbe voluto in continuazione all’umanità, per aiutarla a vivere questa vita troppo malamente travagliata e troppo angustiata dalle continue avversità provocate dallo stesso prossimo nostro.

Oramai, anche Santandrea – come Napoli – aveva il suo pulcinella. Leonardo – che oltre alla comprensione ne faceva una passione – si era dimostrato un attore perspicace ed istintivo. Nella vita quotidiana era una persona seria. Ne aveva dato prova sino a quel giorno. Nessuno aveva rimarcato quella sua tendenza capace di mettere il buon umore nella gente. Si sarebbe detto più incline alla malinconia che alla ilarità.

Però, quando Leonardo calcava il palcoscenico, si trasformava. Una vena esuberante e inestinguibile di battute lepide gli sgorgavano con facilità e tutte erano tempestive ed opportune. Nessuna sciocchezza, nessuna falsa improvvisazione, nessuna improntitudine si rilevavano in lui. Seguiva il filo del discorso, ne accentuava il colore, ne rilevava il tono, ne precisava il concetto, e poi giù e giù e giù risposte e frasi da morire dal ridere. Ed il pubblico era nelle sue mani e ne disponeva come ne voleva. E lui – Leonardo, il figlio di « don Pietro la cozza » – era diventato il beniamino del pubblico.

* * *

Non tutte le mele nascono tonde. Non tutti i pulcini nascono con due gambe. Vi fu un anno in cui, Leonardo venne colpito da una malvagia sciagura. Alla vigilia del carnevale, gli era morta una bimba di qualche anno, ma bella, assai bella, la quale venne compianta da tutto il paese. La famiglia – dopo i funerali – anche se non aveva indossati gli abiti da lutto, perché per i bambini il nero non si usa, si era ritirata in casa evitando il contatto col pubblico, il commercio e gli altri affari. Egli – come era consuetudine – avrebbe dovuto rispettare gli otto giorni di lutto, prima di mettere il muso fuori di casa.

Come si fa? Era la domanda che si erano posti gli attori di quell’anno e tutta la cittadinanza. « Che fare? » « Che decidere? » Le spese erano state tante quell’anno, perché gli scenarii erano stati tutti rinnovati. La fama del pulcinella, sia pure di paese, aveva varcato i confini. Di fuori, venivano curiosi ed intenditori: professionisti e artigiani e signori per censo.

Più di tutti, la cittadinanza era sulle spine. Mancavano ventiquattro ore appena alla recita. Tutti bollivano nel fuoco. Da un lato vi era la morbosità di volere ad ogni costo la recita; dall’altro v’era il rispetto al dolore che due genitori sentivano di fresco nell’anima per la propria bimba, rapita improvvisamente da un morbo crudele. I forestieri fremevano e si assicuravano i posti a pagamento.

Come risolvere la situazione che si manteneva in una atmosfera di dubbio e di incertezza? Tentare? Tentare che cosa? Tentare dei passi – sia pure alla larga – presso il figlio di « don Pietro la cozza », nella speranza che decidesse affermativamente. Pregare, pregare, pregare. Sarebbe stata quella la via buona. Ci sarebbero andati tutti a impietosirlo. E tutti vi andarono: le autorità, gli amici, i parenti, le persone mai viste in quella casa, contadini, artigiani, professori del Seminario, i quali – disertavano ora la recita dei propri alunni – per recarsi a « sentire » il pulcinella di paese.

I primi approcci vennero fatti dall’Arciprete; si seguirono i medici ed i maestri; i compari di sopra e di sotto, i Bellino; il Sindaco e la Giunta comunale; la popolazione tutta seguì l’orma delle autorità! Pregarono, scongiurarono, piansero tutti insieme, finché, Leonardo – con un dito di barba in faccia – disse: Verrò! Tenetemi tutto pronto. All’ultimo momento verrò!

* * *

Era quella l’ora più terribile della sua vita. O la superava o sarebbe caduto vittima del proprio dolore. Decise di lottare e di vincere. Ancora una volta, salì il palcoscenico. Quando si trovò di fronte al pubblico, venne assalito da un capogiro che – se non si fosse fermato accanto a una « quinta » – sarebbe precipitato nel mezzo della platea. Si fermò per lo spazio di un minuto appena. Portò la mano alla fronte. Si sentì una puntura al cuore. Il pubblico se ne accorse e trattenne il respiro.

Si riprese subito. La recita, anzi, procedette spedita, esilarante, viva, così come il pubblico la esigeva. Gli applausi a scena aperta si seguivano, gli uni dietro gli altri, a breve distanza. Non vi fu mai una battuta d’arresto. I « bis » si inseguivano, e dai a ripetere le scene intere, altrimenti il pubblico non avrebbe lasciato continuare.

Leonardo – nello spazio di quei intervalli che duravano un attimo – rivolgeva il pensiero alla sua bimba che adorava, e di nascosto, si asciugava le lacrime con le maniche del camice bianchissimo, furtivamente. Come Dio volle, si giunse alla fine. Il pubblico scoppiò in un diluvio di battimani che non cessava, e gridava: « … fuori pulcinella … fuori … pulcinella! » Leonardo era costretto a sortire di dietro le quinte, ma quando faceva il restio, ve lo trascinavano gli altri attori, con la forza.

A quella dimostrazione spontanea, egli fu obbligato – come aveva imparato dai grandi pulcinelli – a sollevare la maschera di cuoio e a ringraziare col viso semiscoperto. Ma quale fu la sorpresa degli spettatori quando si accorsero che il volto di pulcinella era rigato da due lacrime che gli scorrevano diritte dagli occhi lungo le gote?

La folla si commosse a sua volta. Montò compatta in piedi come un solo uomo e – compresa dal dolore che doveva trafiggere quel cuore di padre – si diede a gridare « evviva! evviva! », decretandogli un trionfo che certamente Petito gli avrebbe invidiato. Un trionfo senza precedenti. Un trionfo infernale che i più vecchi ancora ricordano. Ed egli restò, diritto in piedi, come impietrito.

* * *

Quel pulcinella – quell’artista istintivo di paese – era mio padre.


Note

(1) - Si tratta del nonno dell’autore (si veda la fine del racconto).


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Sindaci

Francesco Bellino
(da "La Fonte")

1833-1837